Come si passa il tempo a Kabul quando non si lavora (e cioè principalmente nel weekend)? Ci si immaginerebbe la reclusione totale, o almeno io ero psicologicamente preparata a questo prima di lasciare l’Italia. Mi è bastato qualche mese per capire che mi sbagliavo, e che c’erano un sacco di attività interessanti a cui dedicarsi, prima tra tutte, lo shopping.
In questi posti così lontani e diversi dalla nostra realtà è molto facile lasciarsi prendere la mano dagli acquisti…Sembra tutto bello, prezioso e imperdibile: dai tappeti alle teiere di terracotta, dai vestiti etnici ai gioielli di lapislazzuli e turchese…proprio questi ultimi “oggetti” rappresentavano il mio punto debole, soprattutto dopo aver conosciuto Mokhtar, un anziano gioielliere di Chicken Street. Chicken Street è la via principale dello shopping a Kabul, frequentata quasi esclusivamente da occidentali alla ricerca di pezzi di antiquariato unici e pregiati tappeti. Qui effettivamente si trovano miriadi di souvenir, e insieme a questi anche tante fregature. Forse, pensandoci bene, è proprio per questa ragione che la via è soprannominata Chicken Street, che tradotto dall’inglese vuol dire “la via dei polli” (che saremmo noi turisti in cerca dell’occasione). Tuttavia, se si riusciva a creare un certo rapporto di fiducia tra compratore e negoziante, c’era la possibilità di scansare le fregature.
Io, sono sicura, mi sono fatta fregare varie volte da Mokhtar, finchè a un certo punto lui ha capito che ero diventata una compratrice abituale e che potevo perciò passare dalla parte del cliente fidelizzato. Frequentavo settimanalmente la gioielleria di Mokhtar, e spesso acquistavo qualche monile o un paio di orecchini. Probabilmente aveva iniziato a rendersene conto, così, visita dopo visita, mi trattava sempre meglio, facendomi un po’ di sconto, oppure regalandomi ogni tanto qualche bracciale o ciondolo. Addirittura c’erano dei particolari privilegi per i clienti fidelizzati, fra cui l’accesso al primo piano del negozio, dove si trovavano delle teche contenenti –diceva- delle collezioni particolarmente pregiate di monili antichi. E naturalmente, tra i privilegi rientrava anche il tè, che sorseggiava con noi mentre ci raccontava di quando nella sua bottega veniva addirittura la Principessa India d’Afghanistan, tanto tempo fa. Il tutto si concludeva naturalmente con il pagamento: fissato il prezzo e assodato che entrambi eravamo soddisfatti dell’affare (esiste una formula precisa con la quale il negoziante chiede al cliente se è contento, e il cliente risponde di si: “Khoshal hastid? Koshal hastam”), io pagavo, salutavo e uscivo.
Sembrava quasi che, in tutto ciò, i soldi fossero la cosa che contava meno…ma forse è solo un’impressione! Ad ogni modo, nonostante le visite da Mokhtar richiedessero tanto tempo, erano sempre divertenti e piacevoli.
C’era un altro negozio che visitavo molto volentieri, una libreria divenuta famosa grazie al libro “Il Libraio di Kabul” della norvegese Åsne Seierstad. Il negozio si trova non lontano da Chicken Street, ma piuttosto che in una strada chiusa alle auto come la “via dei polli”, apre i battenti su un crocevia molto trafficato. Sull’insegna si leggeva “Shah M Book Co.”, che stava ad indicare il nome del proprietario, Shah Muhammad.
Il libro che parla della sua storia (la strenua lotta contro i talebani per evitare che bruciassero tutti i libri scritti sull’Afghanistan, il suo eroico impegno per nasconderli alla loro furia distruttrice) e della sua famiglia è stata la sua fortuna e la sua rovina al tempo stesso. La giornalista norvegese infatti, dopo aver trascorso quasi un anno all’interno della famiglia del libraio, scoprendone i segreti più nascosti e seguendo le vite di ognuno, ha scritto quello che è divenuto un best-seller, e che ancora prima de “Il cacciatore di aquiloni” o di “Mille splendidi soli” ha fatto conoscere Kabul e l’Afghanistan al mondo. Questo ha naturalmente attirato una miriade di visitatori nel negozio, i quali, come me, volevano conoscere il protagonista del libro, ma allo stesso tempo ha gettato Shah Mhuammad e la sua famiglia nella vergogna profonda, dal momento che tutto il mondo è venuto a conoscenza dei loro segreti più intimi.
Forse è per questo che il libraio Shah M. è scorbutico, non ti accoglie con gentilezza, non ti offre del tè, non ti aiuta nella scelta dei libri. Troppe persone si sono intromesse nella sua vita, anche se hanno fatto la sua fortuna (le vendite di libri del suo negozio sono salite alle stelle e lì sono rimaste, perché tutti vogliono comprare un libro dal famoso “libraio di Kabul”!). Ma entrare in quel negozio è comunque un’esperienza unica, un tuffo nel passato (e nella polvere) tra volumi ormai fuori pubblicazione, guide turistiche dell’Afghanistan del 1800 scritte da intrepidi viaggiatori inglesi, libri illustrati con foto di una Kabul che non esiste più, poster ingialliti dei famosi e purtroppo perduti Buddah di Bamyan, opuscoli propagandistici del periodo dell’occupazione sovietica che illustrano le grandi infrastrutture realizzate dai russi. E ancora, volumi di enciclopedie in lingua russa, libretti di poesie d’amore di donne di etnia pashtu, vocabolari Persiano-Cinese e corsi accelerati di Dari (la lingua locale) completi di audio-cassette. Lì dentro c’era un libro per tutti, bastava avere la pazienza di cercare, mangiare tanta polvere, spostare chili di libri come fossero mattoncini, e -se nel frattempo il libraio non aveva chiuso il negozio- finalmente si trovava qualcosa di interessante.
Anche io avevo trovato il mio libro, una guida storico-turistica dell’Afghanistan, scritta nel 1972 da Nancy Hatch Dupree, un’archeologa americana che durante un suo viaggio nell’Asia centrale era rimasta folgorata dalle bellezze naturalistiche e architettoniche dell’Afghanistan, tanto da trasferirvisi e scriverci sopra una guida. Ecco l’effetto che questa terrà fa sui suoi visitatori. E continua a farlo anche oggi, nonostante il suo volto sia, purtroppo, molto cambiato.
bel articolo!!!
grazie Erkin! detto da un afghano vale di più! 😉